Un dollaro d’onore…

È passata molto sottotraccia, in questi giorni, la notizia della scadenza dell’accordo tra Usa e Arabia Saudita sulla fatturazione in dollari del petrolio esportato. I “giornaloni” hanno finito col classificarla come fake news, una speculazione politica su un evento che da tempo è già realtà. La scadenza formale dell’accordo non significherebbe nulla sul piano pratico e l’invocata fine del dollaro, da parte dei detrattori dell’egemonia americana nel mondo, sarebbe ancora molto lontana nel tempo.
A guardare le pure cifre, potrebbe anche essere così: il dollaro pesa ancora per il 58% sulle riserve mondiali di valuta, a buona distanza di sicurezza dall’inseguitore (euro), fermo al 20%; a distanza addirittura siderale si trova lo yuan (2%), moneta del paese concorrente per definizione. Secondo la Banca Mondiale il dollaro intermedia ancora il 90% del commercio mondiale e rappresenta il 70% del debito totale, e tutto lascia pensare che per molti anni sarà ancora così.
Ma le cose non sono così semplici, se Nasdaq.com, testata on-line del primo gruppo borsistico elettronico del pianeta, commenta: “Mentre le implicazioni complete di questo cambiamento devono ancora essere viste, gli investitori dovrebbero almeno essere consapevoli che a livello macro, l’ordine finanziario globale sta entrando in una nuova era. Il predominio del dollaro Usa non è più garantito”. Evidentemente, se lo dicono loro, qualcosa di serio sta succedendo.
Quello che è vero è che il processo di slittamento è graduale e l’interpretazione è basata su molti indizi, che insieme fanno una prova.
Gli Usa hanno dominato il mondo, soprattutto negli ultimi 30 anni, con 800 basi militari sparse per il mondo e una valuta affidabile, liquida, stabile. Il dollaro è sempre stato una riserva di ultima istanza nei momenti di instabilità, rifugio principe nelle fasi di “flight to quality”, quando le cose si mettono male e si cerca un porto sicuro dove mettere i soldi.
Negli ultimi tempi però le cose non vanno così bene per il biglietto verde. Dal 2009 è decollato il bitcoin, strano prototipo di valuta digitale, che dopo anni di estrema volatilità, è arrivato oggi a valere circa 1.300 miliardi di dollari, che diventano 2.300 miliardi insieme alle altre criptovalute. Non proprio noccioline.
C’è una forte tendenza ad acquistare oro, a tonnellate, da parte delle banche centrali. Ne sono state acquistate oltre 1.000 tonnellate, sia nel 2022, che nel 2023. In questo 2024 stiamo già veleggiando verso le 300 tonnellate. Intanto il prezzo sfiora i 2.400 dollari l’oncia e questo rende interessante la rivalutazione del capitale nel lungo periodo, competitiva con la dinamica inflattiva, a differenza di molti altri assets destinati a svalutarsi in termini reali. Per esempio, negli ultimi 20 anni il prezzo dell’oro è salito del 485%, mentre l’’inflazione Usa è stata del 64%. I dati ufficiali arrivano in ritardo, ma la banca centrale cinese aveva già 2.250 tonnellate di oro nei suoi forzieri, a fine 2022. Voci indiscrete dicono che in realtà ne possiedano 5.000 tonnellate, cifra non così distante dalle riserve oro degli Usa, che hanno a Fort Knox qualcosa in più di 8.000 tonnellate.
Ci sono altre minacce all’orizzonte. I Brics hanno nell’estate scorsa ampliato il numero dei partecipanti all’accordo, imbarcando Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Egitto, Iran (l’Argentina di Milei ha poi dato il recesso). Insieme ai fondatori storici, si arriva al 40% del Pil mondiale e al 30% della popolazione mondiale. Pur essendo eterogenei come formazioni sociali, interessi, obiettivi, i Brics allargati puntano a creare un’area commerciale e valutaria di scambio sganciata dal dollaro, hanno una loro banca sovranazionale e puntano su una loro moneta unica, un paniere denominato R5 (dalle iniziali delle loro principali valute: rand, real, renminbi, rublo, rupia).
Sono solo suggestioni? Non proprio, perché cresce la tendenza a scambiare materie prime (di cui sono ricchi alcuni “Brics”) con manufatti industriali, impianti chiavi in mano e reti infrastrutturali, sia fisiche che digitali (di cui sono provetti produttori altri “Brics”). La demografia, per dire, sta dalla loro parte…
C’è anche un altro paio di elementi che indeboliscono, in prospettiva, la stabilità del dollaro. In un sistema di cambi flessibili dove la forza della valuta dipende (anche) dalla solidità del sistema-nazione che la esprime, gli Usa non sono proprio un baluardo inattaccabile. Il loro Pil è cresciuto di 16.000 miliardi di dollari dal 1999, ma il debito è salito di 25.000 miliardi. Le tasse sono scese dal 28 al 26% del Pil, ma le spese sono salite dal 31 al 37%. Questo significa che l’indebitamento globale Usa, mettendo insieme debito pubblico e privato, raggiunge il 350% del Pil.
Inoltre, c’è da considerare il fattore geo-politico. Biden ha insistito fino allo sfinimento per convincere gli europei (riluttanti) a sequestrate i beni russi in occidente (a partire dalle riserve della banca centrale). Si tratta di circa 300 miliardi di dollari, depositati prevalentemente in Belgio. Nell’ultimo accordo sulle sanzioni alla Russia e gli aiuti all’Ucraina, si è stabilito che gli interessi che maturano sugli investimenti russi devono essere messi a garanzia dei 50 miliardi di prestiti a Kiev, che tra poco più di un mese andrà in default per la seconda volta (la prima volta nel 2014, dopo la perdita della Crimea). Mentre il capitale si deve rassegnare a perdere un pezzo (si presume il 20% di sforbiciata) per ragioni geo-politiche, chi sta dall’altra parte del mondo sta facendo due conti.
Se le riserve depositate in occidente sono a rischio e si mette a repentaglio una certezza sopravvissuta a tutte le guerre (il capitale non si tocca mai!), viene meno qualunque regola di diritto internazionale. Meglio dunque fare investimenti alternativi, sul piano valutario e geografico. Difatti la Cina ha rallentato l’acquisto dei T-Bond americani: dai 1.300 miliardi di dollari del 2013, è ormai scesa sotto gli 800 miliardi. Si chiama derisking anche questo…
Non siamo dunque in presenza di un effetto valanga. Ma certamente si stanno aprendo dei buchi nella diga, piccoli per ora, ma sempre più numerosi e potenzialmente incontrollabili. Con il cambio di presidenza Usa, a fine anno, tutto sembra destinato ad accelerare verso direzioni ancora imprevedibili.
Come ha detto qualcuno, non saranno tempi molto divertenti, ma saranno di sicuro vivaci!

Renato Strumia

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